Silvia Pegoraro

Ossidiana



Anni fa, intraprendendo una ricerca intorno al solco scavato da Lucio Fontana (1899-1968) nell’humus dell’arte italiana e internazionale, e sui suoi possibili eredi, ebbi modo di riconoscere immediatamente in Paolo Radi uno di loro, e senza alcun dubbio uno dei più interessanti. Ricordo la frase di Fontana a cui pensai quando potei osservare per la prima volta il lavoro di Radi: “non voglio fare un quadro: apro uno spazio, una dimensione nuova nell’orientamento delle arti contemporanee...” (Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione, 1952). Dominare lo spazio, misurarsi con l’infinito, dare un volto all’invisibile: ecco l’eredità di Fontana raccolta da Radi. Alle proprie ossessioni più struggenti, Lucio Fontana ha reagito con gesti estremi - tagli, buchi, squarci - che hanno provocato un terremoto formale. Con Fontana l’opera è diventata spazialità fusa col tempo, proiettata verso l’aperto del mondo e della vita. L’esperienza poetica di Fontana si è svolta rigorosamente all’interno dei generi tradizionali dell’arte - pittura e scultura ma presto il dialogo si è trasformato in sfida, avventura, trasgressione.

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Il suo gesto che infrange la superficie levigata della tela muta la pittura in scultura, o piuttosto, rende indecidibile il suo statuto: la scultura per Fontana è anche pittura, ovvero linea e colore che irrompono nello spazio fisico e lo modificano. E infatti: è scultura o pittura, il lavoro di Radi? In Radi come in Fontana l’opera si offre all’attraversamento, diventa la soglia che dà sull’abisso, su uno spazio non codificato né esperibile, fisico e insieme metafisico. Radi, come Fontana, costruisce territori di passaggio che chiedono di essere attraversati, e propone la sostanziale monocromia come viatico per il transito. Trasforma la monocromia in poesia, ed esprime lo spazio attraverso la luce, grazie anche all’intuizione sintetica e musicale della superficie curva, che rende elastico lo spazio e abolisce il centro, il punto di vista privilegiato. Studiando l’idea di spazio, Fontana giunse ad inventare il monocromo, di cui si sarebbe appropriata l’arte concettuale, anticipando di un decennio la sua nascita ufficiale, fissata dagli storici dell’arte con le prime “expositions monochromes” di Yves Klein. Pioniere, Fontana lo è stato anche con la luce artificiale: nel 1948 l’artista sperimenta l’uso del neon creando un Ambiente spaziale a luce nera alla Galleria del Naviglio di Milano: un grande vuoto nero per contenere la luce. Con il nero, Fontana si era già cimentato intensamente anche nel periodo della sua scultura cosiddetto “primitivista”, negli anni ’30, in particolare in un’opera esposta alla sala personale del Milione: il celebre Uomo nero (1930, andato distrutto), frutto di un espressionismo intuitivo, spontaneo e impulsivo. Era un gesso colorato a catrame, alto un metro e trenta, risolto in un primordiale dialogo di masse nere e informi, solidificatesi in una figura d’uomo. Artisticamente vicine e rassomiglianti all’Uomo nero sono alcune tavolette di grafite, fra cui la più famosa è Le vergini, del 1931. Un nero profondo ma pieno di bagliori, sfumature e screziature è anche quello abbondantemente usato nelle Pietre e nei Barocchi degli anni ’50. Il nero, che abbonda soprattutto nel primo Fontana, sembra assumere nell’artista italo-argentino davvero il ruolo di una sorta di Nigredo, che nell’Opus alchemico costituisce la prima fase, quella in cui la materia porta ancora il suo peso e la sua viscosità primordiale, sensuosa e sontuosa, barocca. Il bianco, d’altra parte, sembra piuttosto la conquista di una fase successiva – Albedo – in cui la materia si è rarefatta e alleggerita, quasi fantasma di se stessa, fantasma che allude a uno splendore razionale, a una luce metafisica. Ed è la incantevole sala delle Attese bianche alla Biennale di Venezia del ’66 l’approdo, tutt’altro che elegiaco, alla perfezione del bianco come essenza del pensiero. È forse proprio la luce modulata e plastica di questo spazio bianco, di quest’Albedo, conquista estrema di Fontana, a costituire il punto di partenza di Paolo Radi, il soffio animatore della sua opera, l’intonazione prima dei suoi ormai celebri bianchi: i suoi lavori in legno, carta, cera, in perspex e pvc, così ricchi di straordinari effetti pittorici - pur in assenza di pittura - di affascinanti effetti plastici - pur in assenza di tradizionali tecniche e materiali scultorei. Superfici ondulate e modulate, estroflesse e introflesse, bagnate di luce tonale, dalle cui trasparenze affiorano forme primarie, lamine sottili e soffuse d’oro e d’argento, velate di mistero come simboli arcaici, come antiche architetture, con effetti poetici di grande intensità. Eleganza, rarefazione, silenzio. Eppure, anche, sottile fisicità, corporeità lieve e rarefatta, ma potente e intrigante. Sensualità impalpabile ma avvolgente. Equilibrio ed eleganza, espressi da un delicato linguaggio dei sensi, vanno a creare un’aura “classica” che potrebbe quasi definirsi “canoviana”, pur nell’assoluto aniconismo di questo linguaggio… Fin qui il bianco… il bianco a cui approda Lucio Fontana, e da cui riparte Paolo Radi, in odore di personalissimo classicismo…Ma il nero? Radi vi giunge solo di recente, tra il 2008 e il 2009, in una sorta di percorso à rébours. Ossessione è il titolo della sua prima opera nera (esposta nell’ambito della mostra Cromofobie. Percorsi del bianco e del nero nell’arte contemporanea italiana all’Ex Aurum di Pescara, nel 2009): come se quella del nero fosse appunto un’ossessione nascosta, criptica, incoscia, venuta improvvisamente alla luce – nella sua affascinante luce tenebrosa – grazie alla sollecitazione di un’occasione – quasi in senso montaliano… “Colore per eccellenza o assolutamente non colore, ora divino, ora diabolico, sempre sinonimo di eleganza...”. Così scrive del nero lo storico e antropologo Michel Pastoureau, in un suo splendido libro dedicato a questo colore-non colore1. Per Pastoureau è solo con l’invenzione della stampa che l’identità del bianco e del nero si rivela nella dicotomia a noi più familiare: più di ogni altra tecnica, infatti, quella della stampa trae dalle nette contrapposizioni del bianco e del nero sul foglio la spinta verso la creazione di un linguaggio. Il nero, pigmento estremamente difficile da imparare a trattare, si manifesta dunque nella sua pienezza e corposità solo tra il XV e il XVII secolo, fissandosi sulla pagina e nell’immaginario con il perfezionamento dell’inchiostro e dei processi di stampa. Ma già con il fiorire dell’araldica, tra il XII e il XIII secolo, era iniziata una valorizzazione degli smalti neri e bianchi, non a caso caricati di forti valenze simboliche. Sotto il segno del nero troviamo la Genesi biblica e il buio delle caverne preistoriche; il mito delle tenebre, del nulla, preesistenti alla creazione divina, e i miti dell’oltretomba; i vasi greci a figure nere del IV secolo a.C., e i bestiari delle demonologie medievali; la storia dell’araldica e della stampa, e quella della riforma protestante, che nel XVI secolo avvia una battaglia “cromoclastica”: partendo dall’interno del tempio, abolendo le vetrate iridescenti e tutti gli accessori vistosi, si estende fino al vestiario, imponendo “codici quasi interamente costruiti intorno a un asse nero-grigio-bianco” 2,per recuperare l’essenza severa e rigorosa del sacro nella visione cristiana. Il lavoro di Radi sul nero sembra contenere tutto ciò, e con tutto ciò fa dialogare il nostro immaginario. Lavorando sul nero, Radi recupera l’altro polo della sua dialettica, che in qualche modo, con termine kierkagaardiano, potrebbe definirsi “tragica”, nel senso che pare destinata a non pervenire a una sintesi dei due opposti (bianco/nero), che al contrario si esaltano e si rafforzano a vicenda, proprio nel loro carattere radicale. Il lavoro di Radi sul nero non “supera” il bianco, eppure sembra contenerlo, condividere con esso il mistero della luce, che pare usare proprio il bianco e il nero come strumenti principi nella costruzione dello spazio fisico, e soprattutto nell’evocazione di quello metafisico: il sogno umano dello spazio solo a se stessa; sul suo coinvolgimento solo apparente nel reale, verso cui si tende per subito ritrarsi; sul suo attrarre e poi rifiutare lo spettatore, giocando sulla propria impenetrabilità 3. Da dove vengono quelle forme così sottilmente, eppure energicamente plastiche, forgiate nella luce smaltata del nero? Da un luogo precedente il mondo, che nessuno sguardo ha mai misurato. Dalla potenza della notte, in cui ogni essere fluttua prima della sua nascita, quando nessuno spazio regola la sua navigazione secondo l’alto e il basso, la luce e l’ombra. Ecco allora davanti a noi, nel suo avvolgente profilo – ora nerolucente, ora neropaco - il fantasma imperioso della Notte, nel cui cuore si elaborano le possibilità non realizzate, i desideri insoddisfatti, tutto ciò che prima di dispiegarsi nella luce del mondo diurno esiste come potere dell’infinita potenzialità. Le trasparenze oro e argento suggellano, con il loro cromatico “non so che” o “quasi nulla” (Jankélévitch), con la loro preziosa delicatezza, con la loro quasi-assenza, la potenza assoluta del nero. In Paolo Radi il tratto di un grande disegnatore - “distillatore di quintessenze”, direbbe Baudelaire – si fonde col tocco di un pittore dell’impalpabile, dell’indecidibile, dell’essere-sospeso. Pittura e scultura si fondono in un virtuosismo non capzioso, che nasce da un’incredibile padronanza della materia, che la fa “cantare” con la voce della forma, in modo tale che i valori percettivi non si perdano nella musica intellettuale delle geometrie rarefatte. Materia come linea di forza di una dinamica che vuole arrivare all’apparizione e alla rivelazione dello spazio come segno di qualcosa che è sempre oltre… Radi mette in gioco un aspetto profondamente suggestivo della percezione, attraverso la capacità dell’opera di richiamare - nonostante, o proprio in virtù della propria aniconicità - un mondo simbolico archetipale. È il nucleo più remoto, più elementare eppure più inassimilabile alla forma: quello che racchiude l’enigma che costituisce anche la sfida dell’arte moderna. Quello che si colloca là dove appare più incisiva e perfetta la plastica delle forze, il dominio su un informe che, assoggettato, ritorce la sfida di un enigma muto e terribile, oppure inquieta con la nostalgia di qualcosa di irrimediabilmente perduto. Come non ricordare che per Th.W. Adorno l’archetipo del sublime – unica idea dell’estetica antica, secondo lui, che non sia tramontata nell’arte moderna – è il nero? L’Opera al Nero di Radi gravita come l’”oltre”, quel sogno che portava lo stesso Fontana - ma anche, ad esempio, un altro grande artista di sublime eccentricità, Giulio Turcato - a identificare questo spazio come lo spazio siderale, lo spazio delle conquiste astronautiche, lo spazio delle comete e delle nebulose. Lo spazio del nero più profondo e assoluto, eppure improvvisamente acceso di bagliori stellari. Nella levigatezza minerale e metamorfica delle superfici aggettanti di Radi, nel loro nero immenso e sontuoso, vediamo i geroglifici dell’invisibile caricarsi di evidenza plastica: scolpiti, eppure come immersi in un moto luminoso. Da Ossessione a Interiors, da Guardiano a Mutante, sembrano essersi cristallizzate qui le forze primarie dall’inizio dei tempi, tradotte dall’intelletto umano in magiche forme aliene, geometriche eppure organiche. Forme misteriose ma volitive, così potenti da modificare lo spazio che occupano, e insieme indifferenti ad esso, perché venute da un altrove. Ecco riaffacciarsi nuovamente il demone di una dialettica “tragica”, che sembra rispondere in grado estremo alle affermazioni di Simmel sulla natura tragica della scultura: sul suo appartenere nella tensione degli opposti. Gioca sul peso, sulla densità, sulla compattezza, per convertirli in leggerezza, fluttuazione, respiro, tensione musicale. Gioca sulla presenza, costante quanto invisibile - sottintesa, sempre - del bianco come polo dialettico. È come se nel suo lavoro coesistessero due opposte tendenze: densificazione dell’impalpabile e vaporizzazione di masse e spessori. Ed è come se Radi costruisse la realtà sensibile a partire da questi due movimenti apparentemente incompatibili, secondo un principio di nondemarcazione e di metatesi. Vengono in mente le parole con cui il pittore Elstir, nella proustiana Recherche, descrive un luogo incerto e indeterminato come Venezia: “Non si sapeva più dove finiva la terra, dove cominciava l’acqua, e che cos’era ancora il palazzo e che cos’era già la nave…”4. L’oggetto “misto”, meta-tetico dell’arte di Radi, come il palazzo-nave di Proust, ci fa respirare l’indeterminazza del limite, situato com’è in una zona liminale. In esso, ogni termine sostanziale trasmette all’altro la parte più pura della sua qualità costitutiva. L’unità oggettiva, scissa in due modi opposti di consistenza (palpabile e impalpabile, visibile e invisibile, materia-forma e luce), insegue e attira se stessa senza fine. Queste forme nere che racchiudono il movimento della luce sono Corpi Gloriosi – come quelli maestosamente descritti nella divina e diabolica musica per organo di Olivier Messiaen - corpi di luce, corpi di luce nera. Forme pure, ritmiche, tese, che esercitano un forte potere emozionale, offrendosi in tutta l’intensità di un enigma percettivo. Si scopre la vibrazione pittorica della superficie, che varia continuamente al variare della luce e delle angolazioni visuali. Ciò che si vede è e non è ciò che si vede, così come nella metafora - secondo Ricoeur - ciò che si dice è e non è ciò che si dice. La densità dell’ombra diventa visibile solo in certe condizioni di luce. Ma tutto sta tra le pieghe del visibile. La superficie è come una soglia porosa tra il dentro e il fuori, o tra le differenti stratificazioni e addensamenti del visibile. Soglia mobile. Non la regola fissa del gioco, ma una delle mosse possibili all’interno del gioco, vibrazione e oscillazione delle dimensioni e delle masse luminose, vertigine. Vertigine. È una delle sensazioni più forti che sia data provare anche di fronte all’opera – soprattutto all’opera più matura – di un grande del Novecento: Mark Rothko. Un altro artista che ha sentito il bisogno di confrontarsi essenzialmente, necessariamente, e tragicamente, con il nero. E questo proprio a causa della sua estrema - essenziale - sete di luce. L’arte di Rothko è un’arte assolutamente religiosa. La radice aniconica della cultura ebraica, la mistica fotofilìa dello Zohar - Libro dello Splendore – (il testo più importante della tradizione cabalistica), spiega i grandi vuoti-pieni di luce nei suoi quadri. Eppure, la sua visione aniconica sembra rinviare anche all’antica cultura cristianoortodossa delle icone5, come del resto avviene per l’aniconismo di Paolo Radi. Le icone non sono rappresentazioni o racconti di un fatto, come lo sono i dipinti nella tradizione figurativa occidentale, ma vivono in una tensione permanente di immedesimazione con il soggetto rappresentato. Così, la pittura di Rothko - come le vibranti concrezioni aniconiche di Radi – vive nel desiderio di un’identificazione con l’assoluto. È questo che la fa immensa, anche se fatta di nulla, praticamente irriproducibile. Sembra poi arrivare un momento in cui l’assoluto, per essere reale, come in un’icona sacra, ha bisogno di un volto. Rothko cercò di metterlo in luce riempendo di luce il nero. Gli era stata commissionata la decorazione della cappella della Saint-Thomas University, a Houston. Committenti, i coniugi De Menil, collezionisti, miliardari, ferventi cattolici, desiderosi di realizzare in America qualcosa di simile alla cappella di SaintPaul de Vence di Matisse. Rothko, già da qualche anno affascinato dal nero, concepì una serie di tredici grandi tele, immense varianti di neri indescrivibili. Per gli ultimi cinque anni della sua vita tentò di illuminare quei neri sino a infiammarli di una presenza, e la sua vita si concluse sotto il segno del dono e del sacrificio, e nella convinzione che “astrazione e figurazione sono un falso problema”. Il vero problema, per gli artisti e per gli uomini, è quello della luce – fisica? metafisica? – che è tanto più potente quando si sprigiona dalle tenebre del nero, come la luce nera di cui scintilla la pietra ossidiana, mitica pietra vulcanica a cui sembrano rinviarci queste Opere al nero di Paolo Radi . Simbolo del passaggio tra mondo terreno e mondo ultraterreno, tra umano e divino (era usata coma lama per i sacrifici presso gli antichi popoli amerindi); profondamente nera eppure splendente; eccezionalmente levigata e compatta, eppure costellata d’infiniti bagliori, così come ce la descrive Roger Caillois in una delle sue più incantevoli Leçons des Ténèbres: Pietra delle tenebre irriducibili in cui tuttavia, alla superficie dei suoi volumi lisci e bombati, talora nascono e svaniscono (….) si disperdono e si raccolgono in un balletto psichedelico anelli e pallide macchie dorate. I piani della fluidità perduta impongono fughe e fusioni incessanti di seducenti brillìi. (…) Non archi di circonferenze o d’ellissi che permettano all’occhio di completare la loro curva, ma traiettorie ampiamente svasate che, giunte alla verticale del loro fuoco, mutano rotta. Si orientano verso una direzione altrettanto misteriosa e lontana quanto la loro origine.6

1. M. Pastoureau, Nero. Storia di un colore, tr.it. Ponte alle Grazie, Milano, 2008.
2. Ivi, p. 124.
3. G. Simmel, Michelangelo, tr.it. in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Il Mulino, Bologna 1985
4. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, II: All’ombra delle fanciulle in fiore, tr.it. Einaudi, Torino 1973, p.504.
5. Cfr. P. Florenskij, Le Porte Regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano,1977.
6. r. Caillois, Arbobaleno per Melencolia, in Tre lezioni delle tenebre, tr.it. Editrice Zona, Lavagna (Ge), 1999, p. 64.