Paolo Radi alla Fondazione Zappettini

Paolo Radi e Roberto Rizzo
Fondazione Zappettini, Milano
OPERE
Alberto Rigoni

Succede talvolta che, in una doppia personale, il testo critico tenti di spiegare la selezione di tale o talaltra coppia di artisti, riuscendo quasi sempre a giustificare gli accostamenti più azzardati con la solita tesi: proprio la diametrale distanza tra i due invitati genererebbe il "senso" della mostra, quasi che il significato debba risiedere negli spazi tra un artista e l'altro e possa escludere le opere.
Non è questo il caso. Le opere di Paolo Radi e Roberto Rizzo sono incluse nel significato di questa mostra. La selezione non nasce da un accostamento occasionale o pretestuoso.

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Nasce innanzitutto da un passo precedente: entrambi gli artisti sono già stati invitati ad esposizioni collettive organizzate dalla Fondazione Zappettini, il che suggerisce come entrambi lavorino su tematiche quantomeno attigue a quelle care alla Fondazione, e cioè la riflessione dell'arte su se stessa e sui linguaggi suoi specifici. Nasce in secondo luogo da una semplice intuizione: che dall'accostamento dei lavori di Radi e di Rizzo possa nascere una mostra che funziona, in cui le opere - lungi dall'essere escluse - da protagoniste si riverberano e si moltiplicano le une nelle altre. Se poi, come crediamo, l'intuizione si rivela felice, vale la pena di andare a verificare perché. E si scopre che Paolo Radi e Roberto Rizzo hanno Io stesso approccio a determinati problemi che il loro lavoro quotidianamente pone: le proposte e risposte che ne derivano sono tuttavia differenti, in tal caso addirittura opposte, e ciò conferma la pregnanza delle domande poste. Che fare, ad esempio, dello spazio attorno all'opera? Radi risponde appropriandosene per invasione coi suoi pvc emergenti, Rizzo risponde appropriandosene per inclusione con le parti mancanti al centro dei suoi "falsi" dittici. Dove si trovano i confini dell'opera? Secondo Rizzo nell'opera stessa con i bordi argentati e arrotondati che reiterano la funzione della cornice; secondo Radi nell'opera stessa con uno spessore variabile che rispetto all'osservatore si fa a volte "attrazione" altre "attrattore". Di più: in entrambi i casi, tali confini delimitano una superficie che a sua volta contiene altro, una forma non definita che si cela parzialmente all'occhio (Radi) o che all'occhio dichiaratamente si propone come "sostenibile" (Rizzo). I due artisti affrontano a viso aperto il problema del limite, non solo il limi¬te che separa un oggetto bidimensionale da uno tridimensionale, ma un limite esterno cui l'opera deve tendere (Rizzo) e uno interno che per lo spettatore diventa "condiviso" (Radi). E ancora, entrambi utilizzano la luce facendone parte integrante dell'opera: Rizzo la assorbe e la trattiene sulla superficie, specie sulle tinte più intense di queste sue ultime opere; Radi la ingloba e apparentemente la nasconde, ma all'osservatore meno frettoloso l'opera si apre donando il suo mutevole e allusivo interno. Questo per restare sulle opere. Perché sconfinando nei titoli di queste e di altre, si intravedono altri territori comuni: l'arte come luogo del silenzio dove nulla ac¬cade ("Nella Fortezza Bastiani" di Rizzo e "Del silenzio stesso" di Radi) o come autodisciplina non morale ma di metodo ("Maestro interiore" di Radi, i "Cani Fantasma" del samurai cinematografico di Ghost Dog). Addentrandoci, sapremo forse che tra Paolo Radi e Roberto Rizzo non c'è né distanza né vicinanza, ma solo lo spazio che separa le due facce di una stessa medaglia.
Chiavari, febbraio 2009 .

Fondazione Zappettini per l’arte contemporanea Via Nerino, 3 – Milano