Architettura: La Biennale di Venezia 2006.

Se c'e un luogo che nel futuro vorremmo immaginare diverso questo è l'ospedalet il luogo del dolore fisico, della vulnerabilità e della instabilità psicologica. Ci sembra linvece che tra tutti i luoghi l'ospedale sia quello che maggiormente resiste al cambiamento almeno dal punto di vista della percezione che ne ha l'utente
Il padiglione italiano alla Biennale di Architettura offre un’anteprima della città di nuova fondazione che dovrebbe sorgere all’intersezione dei corridoi europei Lisbona-Kiev e Berlino-Palermo: Italia-y 2026. Invito a Vema (Verona-Mantova). Franco Purini muove con anticipo ventennale da un’evidente occasione infrastrutturale proponendo un progetto urbanistico senza idee, dunque ideale. Purini cita sé stesso tra le premesse teoriche -senza riferimento alcuno all'esperienza disturbante di Gibellina- ed inserisce random nel testo la già estenuata immagine dell’affaticata classe creativa di Florida (vogliamo ufficializzare che si tratta della più citata definizione di sempre?)
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.Ma le chiacchiere si esauriscono ben presto, trasformando le successive operazioni in una prassi urbanistica degna di un articolo 11. Quadre, quadrati, diagonali, misure che con vent'anni di anticipo sono precise ai 4 metri, definiscono il sistema attraverso cui Vema perde subito di identità, vedendo affidati i suoi cubetti a 22 progettisti supportati da oltre 200 collaboratori. Delle 12 pagine attraverso cui la Biennale offre i crediti delle 45 partecipazioni nazionali e della chilometrica esposizione principale, Vema ne assorbe una intera. La frammentazione giova di certo ad un network perseguito ad ogni costo, e infatti i 22 gruppi sono ulteriormente affiancati da un architetto straniero e da un artista italiano. Non consideriamo neppure le motivazioni della scelta dei progettisti o la qualità dei singoli progetti. Vema è Purini e sarà Purini. Sinceramente interessa solo un episodio minimo dell'esposizione. Lo "stand" di Antonella Mari -suo il miglior cubetto di Vema- era completato da un’opera di Paolo Radi, importante per il contesto in cui si è trovata collocata. Sappiamo bene che non costruendo praticamente nulla, gli architetti italiani cercano conforto in tentativi di produzioni digitali. Effettivamente venendo a mancare le realizzazioni un serio e coerente lavoro di ricerca linguistica orientato da tecniche e flussi di lavoro informatici, potrebbe assumere una certa solidità e portare a sviluppi inattesi. Purtroppo, oltre a non costruire, gli architettini digitali si affaticano presto anche la vista al monitor e il livello complessivo di consapevolezza degli strumenti che hanno a disposizione è pari a zero. Nullo poi qualsiasi tentativo di forzatura artistica di quegli stessi strumenti. Alto invece l'entusiasmo per i formalismi ottenibili in cinque minuti da qualsiasi ambiente di modellazione ed alcuni buoni esempi di ciò occupano più di qualche "stand" di Vema. Torniamo allora alle architetture di Radi. Forme sospese che provocano un rallentamento nella percezione del tempo, volumi che emergono da trasparenze diffuse e calibrate precisando gradualmente i propri margini. Un formalismo ottenuto con tecnica personale la cui eleganza parla un lingua incomprensibile alla pacchianeria veloce dei blob architettonici. Alcune frasi terse accompagnano questi lavori, attenti fino ai titoli e ancora antipodici rispetto al consueto insulso gioco di parole con cui sono confezionati e comunicati i lavoretti digitali dell’architettura “giovane” di questi anni, dove pare non si possa progettare senza un titolo buono per un format pomeridiano di Retequattro. Gli edifici di Paolo Radi parlano chiaramente di quelli che avrebbero potuto essere gli esiti di una sperimentazione dei linguaggi visivi derivati dal digitale innestata sulla consapevolezza della tradizione architettonica italiana. E invece...