Ri-definire / In-definire
Alberto Zanchetta
Il concetto di genius loci appartiene al nostro modo di essere, di pensare e di “saper fare”. Potrà sembrare anacronistico parlare di un’identità nostrana, se non fosse che il Belpaese possiede una sensibilità che – senza timore di smentita – la distingue dal resto del mondo. Quale che sia il suo genere, stile, periodo, nell’arte italiana permane una “singolarità” che può cogliere sia l’occhio allenato, sia l’occhio svagato degli occasionali avventori. Più precisamente: c’è una “tipicità” non solo nell’opera ma pure nel modo con cui la si fruisce. Nei musei stranieri gli spettatori tendono a guardare le opere da lontano, le scrutano come fossero panorami; viceversa, lo spettatore italiano cerca di “mettere a fuoco” l’opera, e mentre la osserva finisce per avvicinarla progressivamente. Per un italiano è importante circoscrivere la dimensione visiva, egli restringe il campo per dare libero corso al proprio sguardo indagatore, addentrandosi nella tecnica, nei materiali e nei significati intrinseci. E questo atteggiamento curioso, lenticolare, è la diretta conseguenza di una storia dell’arte capace di ammagliare da lontano e di attrarre a sé lo spettatore. Lo stesso accade quando si osservano le opere di Emanuela Fiorelli e Paolo Radi. Entrambi gli artisti ci obbligano ad avvicinarci e a retrocedere dalle loro opere, ci costringono a cambiare di continuo il punto di vista, mettendo alla prova la nostra percezione. Il pubblico è così invitato a penetrare le superfici con lo sguardo, a scomporre e ricomporre le trame con la mente, sollecitati da una disciplina artistica che mette in discussione l’esistente, così come i confini della scultura e della pittura tradizionale. Radi utilizza supporti semitrasparenti per dare forma a una membrana-diaframma che pare pulsare, fremere sottopelle, rivelando senza mai svelare completamente il proprio contenuto. Al rarefare dell’uno si contrappone l’infittirsi dell’altra, i cui orditi sondano e scandiscono gli spazi, creando volumetrie che seguono ritmi e geometrie che non negano mai l’afflato poetico, al contrario: lo enfatizzano. Ebbene, se Radi insiste su uno sguardo inquieto, che porta verso il “visivo”, Fiorelli è interessata invece all’esperienza tattile, si rivolge cioè alla sfera del “vissuto”. Ambedue gli artisti prestano grande attenzione alle qualità dei materiali, tendono inoltre a neutralizzare i colori, o quantomeno ne fanno un uso assolutamente parsimonioso, evitando inutili psicologismi da parte dello spettatore. Benché il purismo delle loro opere potrebbe risultare “impersonale”, assume per converso maggiore personalità e peculiarità. Il problema dell’arte come tecnica e come autenticità diventa un problema di conoscenza e di verifica delle proprie opere. Senza mai sconfessare la tradizione, la sapienza esecutiva e compositiva di Emanuela Fiorelli cerca di interrogare i suoi mezzi espressivi, inseguendo un linguaggio “classico” che sia però anche “diversione” dalla Bella Maniera fine a se stessa. Si noti infatti come il suo metodo non rischi mai di anchilosarsi in regole o stilemi, in questo suo rigore formale affiorano semmai suggestioni liriche, evocative, mai descrittive. Impegnata nel dare senso e sostanza all’impalpabile, l’artista non [di]spiega l’immagine, non intende neppure conferirle significato, vuole semmai “contestualizzarla”. I fili e le ombre che si intersecano nella ricerca di Fiorelli ci permettono di vedere come una forma mentis possa essere convertita in un volume tridimensionale, un “disegno” nello spazio che è anche un tentativo di disegnare lo spazio stesso. I fili, elastici o di cotone, ci appaiono ora duttili (a seconda del contesto) ora perentori (nella loro traiettoria). Contrazioni e distensioni, rigidità ed elasticità sono fattori che avverano una condizione e-statica, capace cioè di dissimulare la realtà, alleggerendola dei suoi confini e del suo peso specifico. Come fossero sinfonie, queste linee vibranti – che di per sé risultano prive di “profondità” – sono altresì capaci di suggerire una prospettiva che fende e frammenta lo spazio. Quella di Fiorelli è una progettualità che adempie alla misurazione dello spazio e che fa del segno un
segnale, ma anche una schematizzazione concettuale; oltre a ciò, assume i connotati di una trasmissione-tensione della condizione esistenziale, così come di un tessuto connettivo tra punti/luoghi/persone. Se Fiorelli tende a rendere scultoreo – finanche architettonico – il disegno, Paolo Radi crea invece una disambiguazione tra pittura e scultura. La graduale smaterializzazione della pittura, che lo vede impegnato sin dagli anni dei suoi esordi, collima con la volontà di riqualificare il supporto in struttura spaziale, imperlata dalle luci e dalle ombre. All’illusione della pittura subentra una fisicità dei volumi, che restano ambigui, impenetrabili (protetti nel proprio “grembo” traslucido, alla maniera di un gheriglio). Depauperata da qualsivoglia emotività, la ricerca di Radi tende verso caratteristiche universali e, proprio per questo motivo, trascendentali. L’immagine non si proietta più sulla retina, bensì si radica nella corteccia encefalica, sviluppando una “riviviscenza” della retina che sonda e scava nei ricordi del passato. Le opere di Radi sono intuibili ancor più che esperibili; ne deriva una sensuosità oculare, dissimulazione della pittura e della scultura, che non vengono fuse tra loro, ma che sfumano l’una nell’altra, creando un ibrido del tutto nuovo, del tutto diverso, a cui non siamo abituati. Ciò che non ci appartiene in forma pregressa, ci obbliga quindi a riflettere, meglio ancora: ci impone di scrutare più a fondo. Le superfici, ondulate, aggettanti, modulano lo spazio mettendo lo spettatore nelle condizioni di trovarsi in una perenne “prossimità”, con la consapevolezza di non riuscire mai a ca[r]pire veramente le opere che ci stanno dinnanzi, le quali continuano a sfuggirci, dileguandosi come l’hevel ecclesiastico. Finiscono insomma per stemperarsi in un effetto fumigante, in una nebulosa/sfocatura che si sottrae allo sguardo, ripiegando in un “versante d’ombra” o, all’apposto, rifugiandosi in un bianco abbacinante. Passando dalla nigredo all’albedo, Radi si divincola tra la sublimazione (del mondo) e lo slancio verso il sublime (epifania dell’oltre-umano). Non dissimili da degli enigmi visivi, le opere di Fiorelli e Radi sono equiparabili a dei fantasmata che riescono a far vacillare la nostra percezione. Sempre in bilico tra l’Essere qualcosa e un quasi Nulla, la materia fantasmatica diventa presenza inesplicabile, persino inesperibile nella sua completezza e complessità. Ogni opera sembra insistere su aspetti incorporei, lasciandoci sospesi nel dubbio: l’ambiguità della percezione e del percepito diventa infatti destabilizzante, turbando e/o detournando la realtà fenomenica. Rinunciando alla loro primaria (e palese) condizione d’esistenza, le opere di Fiorelli e Radi favoriscono uno sguardo più analitico, istigando lo spettatore a un esercizio di concentrazione – e non solo di contemplazione – nient’affatto scontato, tanto meno immediato. I critici che hanno scritto di loro si sono spesso affidati alla terminologia dell’aniconico, indicando qualcosa che prescinde dalla figura e dal suo aspetto narrativo, ma sarebbe altrettanto pertinente ricorrere all’aggettivo “anecoico”, ossia a un luogo in cui non è più possibile percepire il suono/rumore, ma dove sia altresì concesso sviluppare una meditazione interna, intima, che comunica per empatia anziché per logica o per convenzione. Dall’evanescente all’intangibile, dall’immanente all’ineffabile, Emanuela Fiorelli e Paolo Radi ci rendono attoniti testimoni di tutto ciò che è riconducibile al Limen, a una soglia che non è solo limite o confine, ma anche dimora e traguardo.